Le Leggende di Luzzana

IL TRABOCCHETTO DEL CASTELLO

Racconta una leggenda tramandata fino ai giorni nostri, come nei tempi di splendore, al castello di Luzzana, si svolgessero feste assai sontuose alle quali partecipavano i signorotti della zona. Queste feste, però, altro non erano che un pretesto per… regolare certi conti…

Si racconta infatti che in una stanza segreta del castello ci fosse una botola assolutamente invisibile chiamata “il trabocchetto”. Andavano alle spicce a quei tempi, niente da dire: “Signorina, mi concede questo ballo?” Se l’invito veniva declinato la sorte della fanciulla era segnata.

Con uno stratagemma veniva “accompagnata” nella terribile stanza dov’era la botola. Questa si apriva e la poveretta precipitava nel vuoto. Nessuna speranza di salvezza: sul pavimento del sotterraneo erano piantate lame affilatissime che trafiggevano il corpo della sventurata. Quante vittime fece il “trabocchetto”! Si mormora, chiusa la botola, che di notte ogni settantasette anni si odono ancora le urla disperate delle fanciulle condannate. Quando le ombre della notte avvolgono il castello più nessuno osa avventurarsi nelle sue stanze e nel labirinto dei suoi sotterranei.

 

LA VALLE DEL MOèTA

Ai tempi dei tempi, a Luzzana, accadde un fatto che solo a pensarlo fa ancora accapponar la pelle! Una sera d’estate, mentre alcune donnette mormoravano il loro rosario davanti al cancello del cimitero, una sera più buia delle altre o, come si suol dire, nera come la gola del lupo, scoppiò una risata sardonica.

C’era una iena tra i cadaveri? Rimasero con il fiato mozzato! Nel buio pesto intravidero, appollaiato sul cancello, dentro un grumo di nebbia, le sembianze del povero Moèta.

Chiedeva pietà e cioè di essere portato lontano dal camposanto, in un luogo dove non potesse giungere, per lui, il suono delle campane, causa di atroci sofferenze per aver rifiutato, in morte, la riconciliazione con Dio. Le donne caddero svenute. La nuova si diffuse rapidamente. Arrivò anche alle orecchie del parroco. Incredulo, volle controllare la notizia la stessa sera. Di ritorno aveva sul volto il pallore della morte. Quando si riebbe dalla paura,… pregò,… pensò,… e prese una rapida decisione: la notte seguente avrebbe preso con se Badelio e Ciandrù, gli attrezzi del mestiere, un sacco e una buona dose di coraggio.

A notte fonda il Moèta era ancora lassù al suo posto, sul cancello. Il parroco fece aprire il sacco e dopo una lunga preghiera imprecatoria quel grumo di nebbia del Moèta piombò a capo fitto nel sacco che, rapidamente, fu legato ben stretto. Caricato il fardello sulle spalle, i tre, uno dietro l’altro, si incamminarono per la mulattiera della Valle dell’Acqua. E, cammina, cammina, cammina,… il sacco diventava sempre più pesante. Badelio e Ciandrù sbuffavano come locomotive. Il parroco sudava freddo. Furono costretti a sostare alla valle dei Roncazzi, alla Cargadura, alle cascine Moioli, a S. Antonio e al “cadelì” di Pecàcc. Arrivati alla valle della Corna Grossa non ne potevano più.

Il povero Moèta incominciava a scottare. La voce delle campane, che era andata affievolendosi man mano che arrancavano su per la salita, era svanita. Capirono che era giunto il momento di buttare il Moèta al suo destino.

Tutti e tre si voltarono e a un cenno del parroco quel disgraziato di Moèta fu buttato e precipitò nelle gole della valle della Corna Grossa che da quel momento fu chiamata Valle del Moèta. Questa si riempì tosto di urla selvagge e di bagliori sanguigni. Palle di fuoco caddero alle calcagna dei tre che, lesti e senza voltarsi, fecero rapidamente ritorno a casa.

Il mattino seguente, per lo spavento, si ritrovarono completamente grigi. E di quella avventura non vollero mai far parola a nessuno. Ora il Moèta se ne sta là, nelle profonde gole della sua valle, tutto solo. Guai a violare il suo silenzio! Monta su tutte le furie. Si racconta che alcuni cacciatori, tra cui Santi-no, che si erano appostati nel suo regno di morte, non essendosi mossi dopo un primo avviso, furono investiti da una gragnuola di sassi. Le ‘filandere” di ritorno da Cene, nell’attraversare la valle, serravano le fila recitando il rosario. Nonostante questa precauzione spesso si sentivano sfiorare le gambe dalla sua mano fredda che si allungava dalla profondità dei burroni fino a loro per 150 metri.

Un’altra volta riuscì ad accendere la radiolina di una signora. Contro un gruppo di ragazzotti scagliò un grosso sasso. In piena notte avevano osato profanare quel luogo chiamandolo a squarciagola. La grossa pietra era la sua risposta.
Contro un gruppo di incauti campeggiatori che stavano esplorando la valle lanciò uno sciame di vespe. Da allora la Valle del Moèta è considerata valle maledetta.

 

L’ORCO DEL BRAGAZZO

C’era un orco salito dal mare fino a Luzzana. Per non farsi vedere si spostava di notte camminando sott’acqua. Lo chiamavano l’Orco del Bragazzo. Era enorme e mostruoso.
Guai a capitare nelle sue enormi fauci, poteva inghiottirti in un sol boccone. Se poi, attirato dall’incanto del posto, tentavi di sporgerti dal parapetto del ponte, poteva allungare fino a te le sue cento braccia, avvolgerti come nelle spire di un serpente e trascinarti nell’abisso, senza scampo di salvezza. Poche persone l’hanno visto, ma fu tale e tanta la paura che da quel giorno divennero balbuzienti.