Il Parco del Gigante
Titanica, nell’accezione romantica, è la scultura Il Gigante: il bassorilievo senza titolo, denominato Il Gigante che sostiene la montagna
Titanica, nell’accezione romantica, è la scultura Il Gigante: il bassorilievo senza titolo, denominato Il Gigante che sostiene la montagna, realizzato in un grande blocco friabile di roccia viva, definita Sasso della Luna, ultimato da Giosuè nel 1841, all’età di 25 anni. Questi, quasi come L’uomo sul mare di nebbia dipinto dal romantico Friedrich, l’ha realizzata sospeso lungo l’aspro e ripido pendio della familiare Valle dell’Acqua, misurandosi con l’unico ed enorme Sasso della Luna che affiorava nella zona. Giorno dopo giorno usciva dalla sua casa natale e risaliva il viottolo che attraversa la contrada di Costa e che allora era pavimentato con ciottoli levigati di fiume. Ai margini dello stesso, un boschetto appartato in penombra, mosso da inquieta brezza, si affacciava quasi a strapiombo sull’incessante corso del torrente Bragazzo, che spiove in cascatelle, poi s’acquieta in laghetti, quindi scorre a valle per sfociare nel fiume Cherio. Era e permane un angolo di infinito nel finito, dove l’immaginazione dell’artista trovò il luogo ideale in cui lasciare il proprio cuore e dove la sua concezione del sublime neoclassico, che sceglieva l’eccellenza della natura per creare il Bello vivo ma ideale trascendendo le passioni, cedette il passo a quella del sublime romantico, che era sentimento dell’animo conquistato dalla grandezza della natura di cui l’uomo è parte.
L’idea che Meli liberò dalla pietra rievoca in modo filtrato il gigantismo michelangiolesco, anticlassico, e quello della “Bella maniera” di Giambologna. È un’idea di scultura che, concepita sulla scala dello smisurato e del non finito è immersa in un contesto che non la può costringere, per la naturale potenza espressiva e suggestiva. Osservando l’opera, tornano alla mente le parole di Michelangelo Buonarroti (Caprese Michelangelo, Arezzo, 1475 – Roma, 1564): «Signore, fa che io possa sempre desiderare più di quanto riesca a realizzare» e ancora «Tu vedi un blocco, pensa all’immagine: l’immagine è dentro basta soltanto spogliarla. […] Io intendo scultura quella che si fa per forza di levare: quella che si fa per via di porre, è simile alla pittura».
Non è noto quanto tempo Giosuè impiegò a realizzare l’opera: forse più anni, date le dimensioni della stessa – quattro metri di lunghezza per quasi cinque di altezza – e le difficoltà dovute al luogo impervio e alla natura friabile della roccia. Mancando la testimonianza diretta sull’iconografia è verosimile la duplice lettura di una figura mitologica o di una figura divina. La gente di Luzzana, di certo impressionata dalle dimensioni, la battezzò Il Gigante, intuendone in certa misura le potenzialità d’immagine.
Nel terzo quarto del Novecento qualche presunto esperto, forse fantasioso, pensò di sottolineare la funzione de Il Gigante, aggiungendo “che sostiene la montagna”, quasi si trattasse di arte ambientale, in cui l’opera nasce e si legge in rapporto al suo contesto. Forse era uno dei modi in cui i luzzanesi l’avevano fatta propria e la interpretavano. Di certo gli artisti di formazione neoclassica come Giosuè Meli si ispiravano alla cultura greca, in particolare alla sua tradizione iconografica mitologica; lo dimostrano anche le opere di gusto allegorico su commissione realizzate dallo scultore luzzanese nel corso della vita.
Il ristorante con alloggio Al Gigante, adiacente alla casa-studio dell’artista, è un esempio non solo del fatto che Luzzana fosse una tappa di passaggio sul percorso del Tonale, anche di come i luzzanesi abbiano percepito la valenza simbolica della loro scultura e la fama del loro artista negli anni.
La grandiosa figura è viva: il busto riverso sta ancora generandosi dalla roccia, in una nicchia naturale che è la sua stessa culla, il volto si abbandona incorniciato da capelli, barba e baffi, con gli occhi chiusi e la bocca semiaperta. La mano sinistra, reclinata e abbandonata, non sembra proprio sostenere la montagna e la postura del corpo adagiato e animato, più che da uno sforzo fisico, da un pathos sofferto ricorda per certi versi l’iconografia tradizionale della Deposizione o meglio della Pietà, tra la morte e la resurrezione di Cristo. Questa interpretazione può essere avvalorata dal fatto che di lì a poco Meli esordì con opere d’arte sacra in scala monumentale, rivelando una profonda conoscenza dell’iconografia religiosa cristiana.